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>> Teoria della traduzione letteraria

Sulla traduzione collettiva di un romanzo di Zsuzsanna Gahse

Di: Renato Weber

Intervista ad Anna Ruchat, direttrice e ideatrice del corso di traduzione editoriale (CTE) promosso dalla Casa della Letteratura di Lugano, sull’avventura della traduzione (per mano di sei traduttrici!) di Taccuino delle scribacchiature del sud, con una domanda finale alle traduttrici.

Per cominciare vorrei sapere perché ha scelto Zsuzsanna Gahse per questo primo ciclo. C’entra il Gran premio svizzero di letteratura di cui è stata insignita nel 2019 o è un’autrice che seguiva già prima?

Ho conosciuto Zsuzsanna nel 2009 in occasione degli Innsbrucker Wochenendgespräche sul tema Lüge und Missverständnis: siamo state insieme, con altri autori, per una settimana. Abbiamo letto a voce alta i testi che avevamo preparato e il suo modo di scrivere mi ha colpito subito e da allora ciclicamente mi sono riproposta di tradurla. Nel 2019 ero presente alla premiazione e il suo discorso ha confermato ancora una volta per me (se ce ne fosse stato bisogno) lo spessore intellettuale e culturale di questa figura che, per converso, attraversa le culture e le lingue europee con la leggerezza di un funambolo.

Cosa le piace particolarmente della sua scrittura?

La cosa che più mi piace della scrittura di Zsuzsanna Gahse (e lo dico da traduttrice) è la precisione: ogni frase ha un suo proprio baricentro. Ogni parola ha un senso inequivocabile che magari non corrisponde al primo significato nel vocabolario. Un senso che va cercato scavando nel testo, cercando conferme, stando sempre pronti a ricredersi nel caso in cui, qualche pagina più in là, la stessa parola venisse chiarita da un contesto diverso.

Anche se è stata tradotta poco, mi viene da pensare che molti libri della Gahse sembrano scritti “appositamente” per essere tradotti, soprattutto all’interno di un corso come il suo, dove il lavoro è per natura collettivo: intelligenti, non troppo lunghi, spesso lontani da schemi narrativi tradizionali, suddivisi in frammenti narrativamente abbastanza indipendenti (sul modello del diario), con uno sperimentalismo formale e stilistico sempre presente e dove non mancano mai i commenti metalessicali. Insomma, un oggetto molto stimolante per un traduttore letterario o una traduttrice letteraria….

Sì, non c’è dubbio. Ha ragione. Sono libri, quelli di Zsuzsanna, a cui una traduzione collettiva di persone appassionate del e abituate al ragionamento sul testo può rendere giustizia nel modo migliore. Al lavoro solitario segue infatti il confronto e anche la lettura a voce alta. In queste occasioni di lavoro collettivo l’attenzione a tutte le componenti del testo si moltiplica.

Perché proprio Südsudelbuch, uscito nel lontano 2012? E non uno dei numerosi titoli usciti dopo (dal 2012, Zsuzsanna Gahse ha pubblicato circa un libro all’anno)?

Prima che cominciasse il corso ho interpellato Zsuzsanna che ha preselezionato per me tre libri: il Südsudelbuch appunto, Schon bald e JAN, JANKA, SARA und ich. Insieme abbiamo deciso che Südsudelbuch era quello che meglio si adattava a una traduzione collettiva.

Taccuino delle scribacchiature del sud: presumo che la scelta del titolo sia stata oggetto di discussioni. Ci sono state altre proposte? Se sì, perché alla fine avete optato per questa traduzione abbastanza letterale? 

All’inizio, anche su indicazione dell’autrice, che sottolineava l’aspetto ambiguo tra disegno e scrittura cui fa riferimento il Sudelbuch, avevamo pensato a “schizzi”, “scarabocchi”, che però in italiano rimandano entrambi più che altro al disegno, mentre il primo riferimento fa capo a Georg Christoph Lichtenberg e ai suoi taccuini. Nella parola usata da Gahse c’era quindi per un verso l’idea di una prima stesura e per l’altro il riferimento alla satira, all’ironia di cui Lichtenberg è stato maestro. La parola scribacchiature non riprende una tradizione (si poteva forse osare “Zibaldone del sud” ma lo trovo un po’ troppo serioso), ma salva l’ironia.

Il libro è frutto di un lavoro eminentemente collettivo. Lo hanno infatti tradotto Paola Celio, Cristina Costantini, Gabriella Motolese, Patrizia Ruth Pancaldi, Bettina Ricceri, Stefania Siddu, che hanno partecipato attivamente al suo primo corso di traduzione editoriale (CTE) , svoltosi tra l’autunno 2021 e la primavera 2022.
Ci può dire in poche parole come vi siete organizzate?

La traduzione è stata affrontata all’inizio da tutte insieme durante le lezioni in presenza che si tenevano in autunno (una decina di cartelle di cui ognuna ha dato una sua versione). Questo tempo trascorso intorno al tavolo ci ha permesso di ascoltare insieme la voce della Gahse (letta frase per frase a voce alta), di ragionare su registro e sintassi, insomma di cominciare ad “accordare gli strumenti”. Uno dei compiti principali di chi conduce il corso in questa prima fase consiste nel rimuovere le “regole” che le traduttrici hanno assimilato negli anni, gli “automatismi”, perché una scrittura come questa chiede che si giochi con la lingua, che si inventi, che si sia pronti a rinunciare alla “scorrevolezza” intesa come diktat del traduttore (e dello scrittore) contemporaneo. Dopo di che abbiamo suddiviso il libro in sei parti e ogni traduttrice ha cominciato a lavorare alla propria, che sempre si sovrapponeva per qualche pagina a quella della traduttrice successiva. Finita la traduzione sono cominciate le revisioni reciproche: la prima rivede la seconda che rivede la terza ecc. Al termine di ogni revisione ci si vedeva su Skype in tre (traduttrice, revisora e io che a mia volta avevo rivisto la traduzione), con lunghe sessioni di discussione sul testo. Finite le traduzioni e le revisioni (l’ultima rivedeva la prima), tutte avevano un quadro piuttosto completo della situazione…

… e non avete avuto bisogno dell’autrice?

Sì, arrivate a quel punto abbiamo preparato una serie di domande e Zsuzsanna Gahse ci ha concesso più di cinque ore di intensa discussione sul testo che è stata per tutte noi una grande lezione e un punto di riferimento per le revisioni finali, in cui ciascuna ha rivisto l’intero testo salvo le proprie parti e poi io ho inserito le proposte di ognuna e ho rivisto di nuovo tutto. 

È stato questo modus operandi il segreto della straordinaria unità di tono (ben percepibile) del libro tradotto? 

L’unità di tono, nel caso di un libro complesso come questo, è data proprio dalla quantità di tempo investito nella supervisione, nelle revisioni. All’inizio ero solo io quella che aveva una visione d’insieme e quindi dovevo continuamente tirare le fila tra le parti, sottolineare le riprese dei diversi nuclei tematici. Verso la fine invece questa capacità di cogliere le “stonature” o le incongruenze era di tutte. 

Le prime scelte metodologiche si sono rivelate giuste fin dall’inizio, o avete dovuto ripensare certi aspetti più in là, strada facendo?

Direi che salvo qualche fisiologico “aggiustamento” dovuto alle caratteristiche del testo e alla configurazione del gruppo, il metodo (se di metodo si può parlare) è una pratica che ho messo a punto per vent’anni alla scuola Altiero Spinelli di Milano in condizioni molto meno “favorevoli” e non ha subito sostanziali modifiche. Ma ribadisco: l’elasticità, la capacità di adattarsi, è la regola principale di questo mio “metodo” e della traduzione letteraria in generale.

Come avete gestito certe peculiarità formali e/o stilistiche dell’opera – penso ad esempio alle parole da non usare elencate in chiusura del libro, o alla presenza di brevi frasi dov’è decisamente la dimensione fonetica a essere in primo piano?

L’elenco delle parole da non usare non è stato particolarmente complicato, si è trattato semplicemente di giocare con i sinonimi e poi verificare che la parola non fosse contenuta nel testo. Ben più complesso (e divertente) è stato invece affrontare le sfide di suono e di senso come Kümmert, krümmt und kümmerlich e tutto il paragrafo che segue. Questi punti li abbiamo lavorati quasi tutti insieme nelle ultime traduzioni in presenza lasciandoli in sospeso finché all’una o all’altra non è venuta un’idea. E poi abbiamo lavorato su quella prima idea per espanderla su tutto il paragrafo.

Kümmert, krümmt und kümmerlich im Umfeld von Kümmel sind schön, und zu krumm gehört auch krank, was Übersetzer für andere Sprache nicht nachvollziehen können, der Zusammenhang
der Wörter bleibt eine Inselgeschichte, festgelegt auf den deutschen Hintergrund. Der Übersetzer muss auf seine Arbeit verzichten, Leerzeilen einsetzen oder einen neuen Zusammenhang in der Zielsprache erfinden. Den allerdings kann es geben. Die Mäusekrautgeschichte, das Ursprungwort aus dem assyrischen Semitisch, hat sich im Ungarischen so verwandelt, dass das Kümmel-Wort an harte Kerne erinnert, und mit dem ungarischen Sprachgefühl kommt man mit dem harten Kern gut zurecht. So ist das Leben schlechthin, armselig und hart wie Kümmel. Über diesen harten Umweg wäre man wieder bei kümmerlich angelangt. Mittelbar wäre das zu übersetzen.

Meschino, cruccino, tapino sono belli accanto a cumino, e cruccio comprende anche crasi, cosa che i traduttori di altre lingue non possono capire, le relazioni tra le parole restano una storia insulare legata allo scenario della lingua di riferimento. Il traduttore deve rinunciare al suo lavoro, inserire righe vuote o inventare nuove relazioni nella lingua d’arrivo. Ma quel contesto si può ricreare. La storia della canapicchia, la parola originaria kamūnu proveniente dal semitico degli Assiri, in ungherese si è trasformata in modo tale che la parola cumino ricorda i noccioli duri e con la sensibilità linguistica degli ungheresi è facile entrare in sintonia con il nocciolo duro. Così è la vita per eccellenza, miserabile e dura come il cumino. Attraverso queste dure deviazioni saremmo arrivati di nuovo a meschino. Indirettamente andrebbe tradotto. 

Come devo immaginare il ruolo che ha svolto (coordinazione, mediazione, incoraggiamento, “temperamento” ecc.)? A quale figura la si potrebbe paragonare?

Quello che io metto a disposizione del gruppo è la mia esperienza. Esperienza nell’ambito della traduzione e, se così si può dire, esperienza “didattica”. La prima cosa è creare nel gruppo un clima di fiducia e di scambio. Fare piazza pulita di rivalità e/o permalosità: il testo che si rivede non è il “mio” o il “tuo” ma semplicemente il testo. Quindi il mio compito è quello di “raddrizzare” continuamente il tiro, sottolineare le “stonature”, rimuovere appunto le rigidità. Ecco io di solito mi paragono al Meister in ogni ambito dell’artigianato. 

Menzionava pocanzi le condizioni più “favorevoli” di cui godevate qui a Lugano. Al di là di ciò, c’è stato qualcosa di nuovo anche per lei in questa esperienza?

Presso la scuola Altiero Spinelli lavoravo, nell’ambito di un normale master, con studentesse (e pochi studenti) che aspiravano a diventare traduttori per lo più professionali. Il mio era uno dei tanti corsi che seguivano e durante l’anno riuscivo a farle lavorare al massimo su mezza paginetta per settimana. Potevo cominciare un libro di solito solo il secondo anno e spesso solo nel secondo semestre. A Lugano invece, con un corso annuale che prevede un buon numero di incontri in presenza (insisto su questo punto perché la maggior parte dei corsi di traduzione letteraria oggi sono online oppure sono di brevissima durata, fatti salvi i corsi del Fusp di Rimini: “Tradurre letteratura” che hanno una formula mista più interessante), si può arrivare a un risultato di condivisione effettiva e completa dell’opera, in cui ognuno si sente coinvolto allo stesso modo. L’esperienza luganese è stata, in questo senso, molto diversa dalle precedenti.

Del suo corso presso la Casa della Letteratura a Lugano c’è stata una seconda edizione nel 2022-2023, da cui sono nate altre due traduzioni (dal francese: Le Pas de la Demi-Lune di David Bosc, sotto la supervisione di Maurizia Balmelli, e, dal tedesco: Unglaubliche Geschichten di Hermann Burger, sotto la sua supervisione).

Si tratta di un formato che intendete riproporre nei prossimi anni? 

Il CTE vedrà nel 2024 la conclusione del primo ciclo con un corso breve (gennaio-giugno) di traduzione dal tedesco focalizzato sulla poesia. Oggetto del “mentorato” conclusivo, fortemente voluto da Fabiano Alborghetti, direttore della Casa della Letteratura, sarà questa volta un’antologia della poesia di Erika Burkart. Dopo di che il corso riprenderà probabilmente più avanti ma in altra forma. 

Care traduttrici, presumo che la traduzione collettiva (in sei, o in sette se contiamo anche la direttrice Anna Ruchat, di un libro della cui pubblicazione eravate già al corrente) del Taccuino di Zsuzsanna Gahse sia stata un’esperienza inedita per voi. C’è un aspetto che vi ha davvero insegnato o fatto scoprire – di cui forse non eravate coscienti – e che ora invece risulta fondamentale nella vostra pratica o idea della traduzione letteraria?

Paola Celio: Vari aspetti mi sono più chiari grazie a questa esperienza. La necessità di uno sguardo “elastico” sul testo da tradurre, sulla sua globalità, ma anche sulla singola parola (la semantica, il ruolo nell’economia dello scritto ecc.); il valore del registro linguistico, aspetto su cui ci siamo interrogate spesso. Di fronte a passi in apparenza intraducibili, inoltre, la creativa perseveranza (di ognuna) si è dimostrata risolutiva. Queste sono alcune delle buone pratiche che porto con me. Confrontarsi, collaborare è sempre produttivo per uscire dalla nicchia del proprio idioletto.

Cristina Costantini: Sì, in effetti è stata un’esperienza del tutto nuova che mi ha dato molto. Il lavoro del traduttore è un lavoro solitario, le scelte linguistiche che si fanno, per quanto ponderate, sono scelte decise in totale autonomia, e anche per il Taccuino in una prima fase è stato così, ma poter discutere queste scelte con le colleghe mi ha fatto scoprire quanta ricchezza ci può essere dentro a un testo e nella lingua. Spesso nella stessa frase ognuna di noi coglieva aspetti diversi che rendeva poi in modo diverso. Ecco, ho imparato a farmi molte più domande rispetto a prima e anche a essere più umile perché la traduzione può sempre essere migliorata. Ringrazio Anna Ruchat che ha saputo valorizzare le nostre capacità individuali e arricchire quelle collettive.

Gabriella Motolese: Direi che la particolarità di questa esperienza di traduzione sta nel fatto che il lavoro in solitaria è stato preceduto e seguito da un lavoro sinergico. La prima fase ci ha permesso di “accordarci” e “ancorarci” al testo originale. Scelta che abbiamo seguito, ciascuna a suo modo e con le sfide che l’autrice aveva sapientemente disseminato nel testo. Il lavoro di revisione effettuato insieme è stato ancora più impegnativo ma avvincente. Si trattava di riallineare le nostre versioni in modo da renderle il più possibile coerenti e confluenti. Il tutto grazie alla sapiente regia di Anna Ruchat, che ci ha seguite per poi lasciare che prendessimo le nostre decisioni finali. In sintesi la preziosa arte del confronto, seguita dal momento delle scelte consapevoli.

Patrizia Ruth Pancaldi: Nessuno degli innumerevoli corsi di traduzione letteraria che ho frequentato è riuscito a farmi prendere coscienza in forma realmente piena e consapevole dei miei personali punti critici, sui quali avrei dovuto lavorare, e delle mie reali potenzialità. La formula ampiamente in presenza abbinata ai tempi lunghi di un anno accademico hanno consentito a questo mio reale processo di mutamento e rinascita, come farfalla da bozzolo, di potersi dipanare con massimo profitto. Nel mio percorso potrei dire che c’è un “prima” e un “dopo” Anna Ruchat: ora sono cosciente appieno dei miei punti di forza e delle mie debolezze, li intuisco, mi autocorreggo, ho acquisito una sicurezza e un senso critico che mi mancavano e posseggo gli strumenti per procedere con slancio nel mio cammino di traduttrice letteraria.

Bettina Ricceri: Venivo da un’esperienza di master solitaria e sentivo il bisogno di misurarmi in un contesto vivace e di scambio. E così è stato. Nella fase preparatoria alla traduzione del Taccuino Anna ci ha guidate e abbiamo avuto modo di conoscerci, misurarci e mettere a punto un nostro metodo di lavoro. Questo mi ha consentito di acquisire e interiorizzare nuovi approcci al testo e di pormi questioni che prima non mi ponevo; mentre lavoravo alla mia parte del Taccuino facevo ricorso alle strategie che avevo osservato e imparato a lezione da Anna e dalle mie compagne. Una pratica solitaria per definizione con l’esperienza di Lugano per me si è arricchita di un coro di voci e punti di vista che continuo a portare con me quando traduco.

Stefania Siddu: Abbiamo imparato tantissime cose utili sulla traduzione, anche perché, prima del Südsudelbuch, abbiamo tradotto diversi testi per esercitarci e conoscerci. Penso che il corso mi abbia dato in particolare la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo su di me come lettrice e traduttrice. Grazie agli incontri regolari e all’atteggiamento accogliente di Anna Ruchat, pronta all’ascolto delle proposte traduttive e alla valorizzazione delle capacità individuali delle partecipanti, ho capito ad esempio che provo molto interesse e piacere nel leggere e tradurre neologismi e che nel farlo si può osare molto di più di quanto credessi.

Pubblicato su: viceversa Littérature.ch, il 23.10.2023

https://www.viceversalitterature.ch/article/24834

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